Nella seconda puntata del podcast L’urlo di Dakar, siamo andati un po’ in giro per le strade della città, tra mercati, car rapide, e botteghe artigiane. Una cosa piuttosto divertente, soprattutto quando si arriva si arriva qui per la prima volta e si ha tanto tempo a disposizione. Ma “perdersi per le strade di Dakar a volte vuole dire proprio perdersi, in senso letterale”…
Il problema è soprattutto uno: gli indirizzi in teoria ci sarebbero, ma nella vita di tutti i giorni non li usa praticamente nessuno.Ma perché? Un percorso, piuttosto tortuoso, per provare a capirlo…
Sono appena arrivato a Dakar, sono senza macchina e come fanno in tanti, sia stranieri che locali, decido di prendere un taxi. Non è certo difficile trovarne uno, le strade sono piene di taxi gialli e non bisogna neppure andare in giro a cercarli. Sono loro, i tassisti, che vanno a caccia di possibili clienti, un po’ dappertutto, di giorno e di notte.
Alzo il braccio e ne fermo uno a caso. C’è un caldo assurdo, è ottobre, ma il volante e il cruscotto sono ricoperti di uno strato di pelliccia sintetica. Una specie di status symbol.
Non so ancora bene come funzioni, penso che basti dire l’indirizzo della mia destinazione, per farmi condurre a spasso per la città, fino al traguardo.
Il tipo alla guida scuote la testa. All’inizio penso che il problema sia il mio francese imbarazzante, ma niente da fare: non ci capiamo. Alla fine ricordo che la mia meta è a pochi passi da un hotel piuttosto lussuoso e conosciuto, e allora chiedo all’autista di portarmi lì. Il pezzetto finale lo farò a piedi.
La cosa sembra funzionare. Contrattiamo il prezzo, sicuramente mi chiede una cifra spropositata – sono appena arrivato in città e si vede benissimo – pago la mia “tassa toubab” e alla fine partiamo.
La stessa scena si ripete più o meno uguale la volta dopo, e poi ancora e ancora. E alla fine capisco. Funziona proprio così: devo dire al tassista un punto di riferimento conosciuto, tipo un monumento, una pompa di benzina o un supermercato, e una volta nei paraggi, devo guidarlo fino a destinazione.
Una sera succede che non ho proprio voglia di cucinare. Ho preso la brochure di una pizzeria che fa consegna a domicilio. A Dakar ce ne sono tante, e alcune sono decisamente buone. Quindi chiamo, ordino, e provo a lasciare l’indirizzo di casa.
Dopo una mezz’ora mi arriva la prima chiamata: devo spiegare a voce dove sto. Poi un’altra a metà percorso e un’altra ancora a pochi metri dal portone. Alla fine la pizza arriva. Fredda e gommosa, ma arriva.
Sono abituato a usare Google Maps anche per andare a fare la spesa, sia in Italia che qui a Dakar. Lo smartphone da queste parti ce l’hanno tutti, o quasi. E sono sempre connessi. Usano molto YouTube, ma anche gli altri social, Facebook in particolare.
Può essere che un ragazzo che fa il delivery in motorino non si decida a usare Maps? Non ci metterebbe molto meno? Non sarebbe 100 volte più comodo?
Questa cosa non la capisco. Ma ne ho capita un’altra: ci sono tante cose che al nostro arrivo in un paese lontano, diamo per scontate e che invece non lo sono affatto.
Questo paese per me è come un grande puzzle da montare, tessera dopo tessera, per provare ad avere una visione d’insieme. Ogni tessera è una sorta di indizio. Bisogna farla combaciare con le altre, trovare l’incastro. E non è una cosa semplice…
Ora, questa storia non è certo la cosa più importante del mondo, ma ormai il cruccio mi è venuto…
Provo a parlarne col mio amico Moustapha, che è anche docente di geografia all’Università Check Anta Diop di Dakar, una delle più grandi e importanti di tutta la regione.
Moustapha ha studiato per diversi anni in Francia e conosce piuttosto bene le differenze culturali che sussistono tra questa parte del pianeta e l’Europa.
Campus dell’Università, Dakar – Murales dedicato a Cheikh Anta Diop, uno dei maggiori intellettuali africani del ‘900.
Quando lo incontro gli spiego tutta la faccenda e gli chiedo: ma perché i senegalesi non usano quasi mai gli indirizzi e Google Maps?
I motivi per lui sono sostanzialmente due. Il primo è il basso livello di scolarizzazione, che fa si che molti, purtroppo, non abbiano ancora dimestichezza con i testi scritti, e quindi anche con gli indirizzi.
I tassisti e i ragazzi che consegnano la pizza rientrano in buona parte in questa fascia, meno istruita, della società.
Ma questa cosa non spiega tutto, così come i link di Youtube, anche le posizioni su Maps possono essere passate con Whatsapp. Non c’è bisogno di saper leggere ne scrivere. Ci vuole un attimo, volendo…
Il secondo motivo, ancora più importante, per Moustapha è il carattere orale della cultura senegalese, che è molto forte e persistente ancora oggi.
È soprattutto questa la differenza, puramente culturale, che fa si che uno strumento pratico e intuitivo come Google Maps, in Europa rappresenti ormai uno standard e da queste parti soltanto un’opzione che non si sceglie quasi mai.
La cultura europea ha interiorizzato un modello di rappresentazione della realtà che è soprattutto grafico e visivo. La pagina stampata, quindi, ma anche la carta geografica che, come scrive Jerry Brotton nel suo bel libro “La storia del mondo in 12 mappe” è “un documento sia scritto che visuale. Non si può comprendere una mappa se è priva di scritte, ma una mappa, se è priva di elementi visuali, si riduce ad un elenco di nomi di luoghi”.
C’è un periodo che per l’Europa rappresenta un po’ uno spartiacque. A metà del 1400, Gutenberg stampa la sua prima bibbia e le spedizioni portoghesi danno il via a una nuova stagione di spedizioni navali ed esplorazioni (ne abbiamo parlato qui). Il libro diventa la prima merce industriale della storia, e la cartografia, durante l’era delle grandi esplorazioni, si sviluppa enormemente.
Libri, carte geografiche e mappamondi si moltiplicano, non soltanto tra le più ristrette élite intellettuali, ma anche nei salotti della nuova e ricca borghesie dell’epoca.
Un secolo e mezzo dopo, Galileo punta il suo cannocchiale verso il cielo e anche le scienze astronomiche si avviano verso una nuova stagione di scoperte.
Il mondo e l’universo sono sempre più sistematicamente comunicati e studiati attraverso il senso della vista.
Un piccolo esempio di questo fenomeno ce lo offrono i pittori fiamminghi del ‘600. Attraverso i quadri di Vermeer, ad esempio, possiamo sbirciare negli interni delle case dei mercanti olandesi e comprendere quanto questi strumenti di rappresentazione fossero apprezzati e alla moda. Dei veri e propri status symbol.
Molto più a sud le cose vanno in modo diverso.
Per quanto riguarda il West-Africa, ad esempio, la conoscenza continua ad essere affidata ai racconti orali dei griot e, come mi conferma anche Moustapha, non si può parlare di una vera e propria tradizione cartografica africana, soprattutto di origine sub-sahariana.
Oggi, ovviamente, la geografia si studia anche a scuola, ma non si può dire che faccia parte della cultura locale da molto tempo.
Come detto, siamo in un contesto in cui l’oralità rappresenta ancora un carattere fondamentale della comunicazione. Ma cosa si intende esattamente per cultura orale? È una roba che ha a che fare soltanto col primato del senso dell’udito rispetto alla vista? O c’è qualcosa d’altro?
In una cultura tradizionale orale, la conoscenza viene trasmessa attraverso narrazioni che sono il frutto di un processo ininterrotto e perennemente incompiuto di elaborazione dei messaggi.
I racconti, più che dell’invenzione di un unica persona, sono il prodotto di una serie di interventi e riproduzioni. Le storie dei griot, ad esempio, si tramandano di padre in figlio e nel corso del tempo, inevitabilmente, cambiano a poco a poco.
Le narrazioni – che contengono racconti, valori identitari e informazioni pratiche – sono in sostanza aperte e collettive e si sviluppano con una trasmissione di tipo orizzontale. È il meccanismo con cui da sempre nascono i miti, non soltanto da queste parti, ma in tutto il mondo.
Non si tratta quindi, semplicemente, di un questione di primato della vista rispetto all’udito. Ma anche della sostanza dei contenuti e della modalità di trasmissione delle informazioni.
I caratteri che abbiamo indicato – contenuto aperto, anonimo e trasmesso orizzontalmente – lo possiamo ritrovare anche in documenti non orali, ma grafici, tipici della contemporaneità.
Pensiamo al web e ai social network e prendiamo ad esempio uno degli strumenti più caratteristici della comunicazione digitale, il famigerato meme. Nella maggior parte dei casi, un meme non ha un vero e proprio autore, o almeno non lo si conosce con certezza. Può essere rimaneggiato, modificato e arricchito di strati di significato con commenti e post. Si trasmette infine orizzontalmente, soprattutto attraverso i social.
Un altro esempio, più comparativo: l’enciclopedia britannica e wikipedia.
La prima è realizzata da una serie di autori, che è facile rintracciare nelle note di stampa, e comunque ha un editore certo: è l’enciclopedia britannica. Viene aggiornata periodicamente in nuove edizioni, ma ciascuna di esse è chiusa e compiuta nella forma stampata. Si trasmette soprattutto attraverso un libro, che si acquista e si legge, secondo una modalità di trasmissione verticale: autore > libro > lettore.
Wikipedia è opera di una pluralità sconfinata di autori anonimi, che rielaborano continuamente i testi, giorno dopo giorno. Si consulta gratuitamente on line e viene continuamente copiata e incollata su altri testi.
I racconti dei griot, nel loro insieme, assomigliano molto di più a Wikipedia che all’enciclopedia britannica.
Ok, siamo partiti da un taxi qualsiasi di Dakar e siamo finiti molto lontano. Ma questo, forse, ci permetterà di dare un senso a un po’ di cose. O almeno proviamoci.
Perché i senegalesi non utilizzano quasi mai gli indirizzi?
In parte perché i limiti del sistema scolastico nazionale (un tema molto complesso e urgente di cui abbiamo parlato nell’episodio 3 del nostro podcast), fanno si che parecchia gente abbia problemi con i testi scritti. Ma in parte anche perché la società è ancora profondamente intrisa di cultura tradizionale orale. Questo non vuol dire che non si leggano libri o che non ci siano intellettuali o scrittori di primo piano (per fare un esempio: il vincitore del Premio Gouncourt 2021 Mohamed Mbougar Sarr), ma soltanto che i modelli di rappresentazione legati all’interiorizzazione della tecnologia tipografica non sono ancora quelli prevalenti.
Perché non usano quasi mai Google Maps? Forse perché la rappresentazione dello spazio è ancora affidata in buona parte alle racconto orale, al suono delle parole e all’ascolto. Bisogna anche dire che, rispetto alle mappe digitali, una descrizione a voce del percorso presenta degli svantaggi ma anche dei vantaggi. Maps, ad esempio, ti fa vedere quali sono le strade che potresti percorrere per raggiungere la tua destinazione, ma non specifica COME sono queste strade, se sono per caso allagate, disastrate o interrotte da una montagna di sabbia. E questa cosa in Senegal, quando ti avventuri al di fuori delle arterie principali, può fare la differenza…
Perché, infine, i senegalesi si trovano così a loro agio con un medium che utilizza anche una grande quantità di testi ed elementi grafici, ovvero con internet e i social media in particolare? Forse perché il modello di trasmissione e riproduzione dei messaggi on line è in buona parte riconducibile a quella che, tecnicamente, si definisce “oralità secondaria”. Veicola cioè messaggi aperti e anonimi, in maniera orizzontale. La viralità dei contenuti che circolano sui social si produce con un meccanismo non molto diverso da quello del passaparola.
O almeno queste sono le risposte che mi sono dato io. Per togliermi un cruccio ho parlato con un docente universitario di geografia, intervistato griot e ho consultato un po’ di vecchi libri.
Magari le mie conclusioni sono sbagliate, sicuramente approssimative, ma è soltanto un esempio per provare a spiegare quanto sia complicato per me, e immagino per tutti quelli che arrivano in Senegal da paesi lontani, decifrare gli indizi che la realtà ci sottopone ogni giorno. Far combaciare le tessere del puzzle e alla fine provare a capirci qualcosa.
È faticoso si, ma è anche divertente.
M.G.